venerdì 18 novembre 2016

gli inferi di luciano

Tra tutte queste dolcezze approdiamo in un porto, e fermata la nave, discendiamo, lasciando Scintaro e due altri compagni. Avanzandoci per un prato fiorito, incontrammo le guardie, le quali ci legarono con ghirlande di rose, che è il legame più duro per loro, e ci menarono alla signoria: ed esse per via ci dissero che quella era l'isola dei Beati, e n'era signore il cretese Radamanto.Condotti innanzi a costui, fummo giudicati dopo tre altre cause. La prima causa fu d'Aiace Telamonio, se egli debba star con gli eroi o no: lo accusavano che era andato in furore e s'era ucciso; infine essendosi molto parlato e per il sì e per il no, sentenziò Radamanto: Per ora beva l'elleboro, e sia dato in mano al medico Ippocrate di Coo; dipoi quando avrà rimesso senno, avrà parte nel banchetto. La seconda fu una quistione amorosa fra Teseo e Menelao, che contendevano chi dei due dovesse tenersi Elena. E Radamanto decise che se la tenesse Menelao, il quale aveva sostenuto tante fatiche e tanti pericoli per lei; che Teseo aveva altre donne, l'Amazzone e le figliuole di Minosse. La terza causa fu chi dovesse avere il luogo più onorato se Alessandro di Filippo o Annibale cartaginese: fu deciso per Alessandro, e gli fu portato un seggio accanto al vecchio Ciro persiano.In quarto luogo fummo presentati noi, ed egli ci domandò per quale cagione essendo ancor vivi eravamo entrati in quel sacro paese. Noi gli narrammo ogni cosa. Egli ci fa allontanare, e lungamente discute la nostra causa con i suoi assessori; e fra gli altri e molti suoi assessori era Aristide il giusto, l'ateniese. Sentenziò e dichiarò: che della nostra curiosità e del nostro viaggio saremmo puniti dopo morte, per ora rimanessimo un certo tempo nell'isola in compagnia dei Beati, e poi andassimo via. Stabilì il termine della dimora non più lungo di sette mesi. Allora ci caddero da sé le ghirlande, e così sciolti fummo condotti nella città al banchetto dei Beati.La città è tutta oro, il muro che la cinge di smeraldi; ha sette porte, ciascuna un pezzo di legno di cannella; il pavimento della città e la terra dentro le mura è d'avorio: vi sono templi a tutti gli Dei e fabbricati di berillo; in essi are grandissime, d'una sola pietra, d'ametista, sulle quali fanno le ecatombe. Presso la città scorre un fiume di bellissimo unguento, largo cento cubiti reali, e profondo che vi si può anche nuotare. I loro bagni sono edifizi grandi, tutti di vetro; vi bruciano cannella e invece di acqua nelle stufe è rugiada calda. Per le vesti usano ragnatele sottilissime porporine. Non hanno corpi, sono impalpabili, e senza carne, non altro che figure e idee, e quantunque incorporei pure stanno, si muovono, pensano, parlano: insomma pare che l'anima nuda vada intorno vestita d'una certa immagine di corpo: e se uno non li toccasse, non si convincerebbe che ciò che vede non è corpo: sono ombre, ma ritte in piedi, e non sono nere. Nessuno v'invecchia, ma in quell'età che ci viene rimane. Quindi non è né notte né giorno chiaro, ma un barlume simile all'albore mattutino prima che spunti il sole. Non conoscono stagioni, è sempre primavera, e vi spira un solo vento, il zeffiro. Il paese produce tutti i fiori, tutti gli alberi domestici e ombrosi; la vite getta dodici volte l'anno, fa il frutto ogni mese; il melograno, il melo e gli altri alberi fruttiferi portano tredici volte, come mi dissero; ché in un mese, chiamato di Minosse, fanno due volte il frutto. Invece di frumento le spighe in cima producono cialdoni belli e fatti, come fossero funghi. Fontane intorno alla città ce ne sono trecentosessantacinque di acqua, di miele altrettante, di unguento cinquecento ma più piccole; sette fiumi di latte, e otto di vino.Il banchetto si fa fuori della città nel campo detto Elisio: c'è un prato bellissimo, e intorno a esso un bosco svariato, frondoso, di piacevole ombra a chi vi sta sdraiato, e sotto un tappeto di fiori. Valletti e scalchi sono i venti; non c'è bisogno di coppieri, perché intorno al banchetto sono grandi alberi di lucentissimo vetro, i quali per frutti producono tazze d'ogni fatta, e grandezza. Quando uno viene al banchetto coglie una o due di quelle tazze, e se le mette innanzi e quelle subito da sé medesime si riempiono di vino: così bevono. Invece di ghirlande gli usignoli e gli altri uccelli melodiosi dal vicino prato raccolgono i fiori nel becco, e ne spargono un nembo sovr'essi cantando e volando.Gli unguenti sono sparsi così: certe nuvolette dense tirano unguento dalle fonti e dal fiume, e librate sul banchetto, mosse leggermente dai venti, piovono una spruzzaglia fina come rugiada. Nel desinare usano musiche e canti: sono cantati specialmente i versi d'Omero, il quale è lì presente, e banchetta coi Beati, ed è adagiato vicino a Ulisse. Vi sono cori di fanciulli e di vergini: li guidano e li concertano Eunomo di Locri, Arione di Lesbo, e Anacreonte, e Stesicoro ancora che vedemmo lì già rappattumato con Elena. Quando cessano questi cori di cantare, ne vengono altri di cigni, di rondini, di usignoli, e quando hanno cantato anche questi, allora tutto il bosco risponde con un suono che pare di flauti, e i venti battono il tempo. Ma la maggior consolazione è questa: ci sono due fonti vicino al banchetto, una del riso, un'altra del piacere: tutti quanti prima di banchettare tolgono una buona sorsata o dell'una o dell'altra, così banchettano scherzando e ridendo.

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